La cultura è per sempre?

Guardate questa pubblicità su una rivista femminile di inizio anni ’80.  Si può discutere sul prodotto pubblicizzato, e si può arricciare il naso al look datato:  ma una cosa è certa, fino ad un certo punto la cultura è stata un VALORE condiviso. Tanto da utilizzarla in pubblicità associandola alla seduzione, e  senza neanche bisogno di sbottonare il secondo bottone della camicetta.

Da quando la cultura ha perso valore?

Riuscite ad immaginare, adesso, qualcosa del genere?  E se no, perché?  Eppure, nella vita reale un incontro in biblioteca è ben possibile ancora oggi…e allora perché non è più (attualmente) un modello proponibile in pubblicità?

Potrebbe tornare ad esserlo, opportunamente aggiornato nei segni e nel linguaggio?

11 Pensieri su &Idquo;La cultura è per sempre?

  1. Al di la’ del look datato, non sono sicuro che quello che dici sia vero ovunque. Qui in Inghilterra, una pubblicita’ come quella (ovviamente con un look piu’ moderno, ma pur sempre normale, un po’ nello stile proposto da una rivista come Monocle, probabilmente quella piu’ di tendenza nella Londra degli anni 2010), e’ tuttora proponibile.

    La prima cosa che mi colpisce quando torno in Italia sono le affissioni 20 metri x 20 sui palazzi, con tutta quella macelleria in bella evidenza. Qui sarebbe improponibile. Il prodotto subirebbe un crollo nelle vendite.

    • certo Fabio, mi rendo conto che ho dato per scontato di parlare della malattia italiana…l’ultimo caso di affissione gigante è andata “oltre”, anche a Milano, forse ne avrai sentito parlare: non voglio pubblicizzarla ma era una ragazza di spalle col vestito alzato a scoprire buona parte delle natiche. Affissa peraltro davanti ad una scuola credo elementare.
      Dal ricordarsi che altrove la cultura è ancora un valore spendibile si dovrebbe, qui da noi, ripartire. Anche perché in questi giorni, dopo il video di Ricci che per difendersi attacca le pubblicità, si è risvegliata un minimo di discussione sul tema anche tra addetti ai lavori.

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  3. Laura,
    ti ringrazio davvero del post. Mi sono commosso.
    Si tratta di un’immagine a cui non ero più abituato: è così stancante tenere duro ogni giorno per non assuefarsi, per non perdere di vista il punto, per non abbassare la guardia, che quando mi viene ricordato cosa non sto godendo mi sento profondamente triste.
    Ma dobbiamo continuare a batterci per ritrovare i nostri modelli, quelli che ci rappresentano davvero.
    Grazie! E teniamo duro!

  4. Io credo perché sarebbe visto come “noioso”, se non “ingenuo” e “puerile”… meglio una chiappa o una tetta – per il vulgus – ché sono più dirette e “adulte”… mah…
    La Cultura una volta muoveva i popoli a prendere coscienza di sé.
    Ora è schiava di chi più offre e più compra.
    Un po’ perché magari fa più comodo non vedersi che vedere; un po’ perché “si deve tirare a campare” (Tremonti docuit?)…
    Ma, al di là di tutto, chi si adagia su ciò che è (inteso come modelli “dominanti”) ha di fondo la ricerca di un senso di appartenenza di massa; trovandolo se ne “sazia”, almeno apparentemente, e ciò gli basta per l’oggi. Forse una volta la Cultura sapeva guardare oltre… o, meglio, se lo poteva “permettere” di fare.

  5. Già, chissà perché non ha avuto futuro un’idea semplice e aderante alla realtà come quella delll’autore/trice della pubblicità in questione. Forse perché ha prevalso la rappresentazione e la vendita di una realtà fasulla (lustrini, paillettes, quarti di donna) che è stata proposta come obiettivo irraggiungibile nella realtà ma comodamente fruibile dal teleschermo? Con proiezione di ritorno dal teleschermo alla realtà: donne che per risultare adeguate devono abbigliarsi e comportarsi come i modelli televisivi? (vedete il video della nuova canzone di Carmen Consoli)Bohhhhh. Certo è che le coppie che si sono formate nelle circostanze ambientali messe in scena da questa vecchia pubblicità chiamano il loro incontro “rimorchio da biblioteca”. Esiste, esiste, e fa strage tuttora.

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  7. Buongiorno, sono autore dell’annuncio in questione, mi chiamo Piero Campanini e la campagna De Beers a quel tempo la realizzava in Italia l’Agenzia Thompson dove io (allora giovane art) lavoravo con Michele Tosi (giovane copywriter). Intanto ringrazio per aver recuperato questo nostro annuncio – ne abbiamo fatti tanti all’epoca che ricordo con molto “affetto” – certo la realtà di allora era tutt’altra cosa e il nostro lavoro di pubblicitari aveva delle logiche di comportamento diverse dalle attuali. Non voglio ora scendere in profondità in un tema così complesso, perché ciò implicherebbe una analisi storica e sociologica della comunicazione, tengo solo a dire che la pubblicità del tempo era una cosa “seria”, nel senso che si prendeva molto a cuore gli stili di vita nel rispetto di ogni persona, gruppo, paese. Sì, di ogni paese perché a quel tempo ogni area europea aveva tradizioni e culture differenti e la comunicazione era fortemente localizzata. Per l’Italia c’erano da considerare in particolare i buoni sentimenti, il valore della famiglia e della cultura: un distintivo inimitabile da altri appartenenti al continente. Poi fu la globalizzazione……

    Piero Campanini

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