E’ sempre utile studiare da più punti di vista i momenti in cui sono avvenute le grandi mutazioni di costume. Se da più parti “Drive in” è stato individuato come programma capostipite di un certo modo di rappresentare la donna in TV, è interessante analizzare oltre alla TV altri segni, altri linguaggi per cercarvi i segni del cambiamento: la moda, ad esempio.
Parto dai miei ricordi di ginnasio dell’anno 1979: gli ultimi vestiti indiani, maglioni shetland, gonne a fiori, zoccoli di cuoio e legno. Già in quell’anno, approfittando dell’esaurirsi dei sogni di una generazione, si preparava il contrattacco: anche se all’inizio parve una semplice voglia di leggerezza. Presto spuntarono addosso alle ragazze microabiti con calze velate e cinturoni dorati, body e tessuti lurex, e si iniziò a leggere sulle riviste che “anche le femministe” ammettevano che non c’era “nulla di male a voler essere sexy e ben vestite”. E infatti, a noi allora giovanissime sembrava anche un po’ strano dover giustificare la voglia di essere sexy, che ci pareva, era ed è sempre sacrosanta.
Qualcuna però fiutava la trappola. E’ interessante rileggere adesso una pagina di “Lei -Glamour” del 1979, dove si scopre che Natalia Aspesi diffidava di questa “donna antifemminista”: dal canto loro gli stilisti spiegavano che la loro moda si ispirava vagamente agli anni 50 ma era ” ironica” (sic!), “guai a prenderla seriamente” e si affannavano a rassicurare che “ci mancherebbe di riprodurre la donna di allora, tutta sedere e niente cervello”…qui l’articolo: lei79
E confrontando nelle foto sopra (clicca per ingrandirle) la stessa rivista nel 1978 e nel 1982, si ha un perfetto paradigma dell’involuzione dell’immaginario collettivo che era appena iniziata – non solo nel look, ma anche nei titoli di copertina – e si sarebbe sviluppata nei modi che sappiamo.