
Immagini dalla mostra “Femminilità violata” di Letizia Menconi – Giardino dei Ciliegi, via dell’Agnolo 5 Firenze, fino al 18 maggio. Info orari 0552001063
Di quanto sia difficile parlare del problema violenza attraverso le immagini ne avevamo parlato lo scorso novembre qui.
E’ un problema che va a toccare il nodo cruciale del ruolo dell’immagine nella comunicazione collettiva. A cosa serve infatti un’immagine? Cosa si propone di fare, e cosa riesce a fare?
Le immagini di volti con make-up che simula lividi e occhi pesti vuole evocare il problema, ma ottiene un’effetto estetizzante-irritante – in una parola: controproducente.
Le fotografie di volti in lacrime o di donne rannicchiate in posizione di vittime, che ci vogliono dire quanto soffrono le donne per la violenza, hanno un effetto psicologico deprimente.
La fotografia documentaria riesce, per quel po’ di fiducia “referenziale” che ancora gli viene concessa (noi speriamo ancora a lungo), a dirci qualcosa di più: testimonia che la violenza è accaduta, accade – e, se siamo mediamente sensibili, ci fa empatizzare con la vittima.
Ma per una comunicazione etica c’è bisogno di andare oltre.
Le figure di Letizia Menconi, pittrice autodidatta alla sua prima mostra, “Femminilità violata”, al Giardino dei Ciliegi di Firenze fino al 18 maggio, sintetizzano molto bene la contraddizione tra la necessità di rappresentare il problema e l’urgenza di superarlo. La rigidità delle sagome disegnate su materiali poveri evoca il dolore, la paralisi del trauma, la contrattura del corpo. Ma l’esplosione di colori contraddice tutto questo e ci dice voglia di vivere, energia che non si fa imprigionare.
Il mezzo pittorico, con la sua maggior vicinanza all’immaginazione, riesce a compiere il necessario salto di significato.
La fotografia potrebbe riuscirci?
Il problema è complesso. Sicuramente l’immagine, se vuole avere nel discorso pubblico un ruolo attivo, deve smettere di mostrarci ombretti viola e lacrime di glicerina.