La mostra “Essere umane. Le grandi fotografe raccontano il mondo”, a Forlì fino al 30 gennaio 2022, è un bel viaggio.
Inizia con l’epica migrante della crisi americana, prosegue con guerre e aneliti rivoluzionari, spazia attraverso territori e strati sociali disparati – miserie e nobiltà – diseredati e gattopardi, incrocia lo sguardo innamorato di Orson Welles, per finire tutti a casa per la pandemia. La storia di un secolo.
Il titolo è un manifesto che rende inutile il dibattito. Siamo umane e niente di umano ci è estraneo, a prescindere da sesso e genere (resta la questione specista, rimandata alla prossima volta). Raccontiamo il mondo, un mondo che non si accartoccia in se stesso in me stesso (cit. A. Zanzotto, Al mondo) come accade a volte alla fotografia di donne.
una panoramica delle fotografie contestate di Letizia Battaglia a confronto con il risultato della ricerca per “donne e motori” in google immagini
Immagina di essere una bambina di dieci anni, o una ragazza di sedici. Vestite come tante bambine, come tante ragazze tra mille perché da giovani si vuole essere simili ai coetanei, è normale. Uscite il sabato pomeriggio, magari con un’amica, vi abbracciate, vi fate un selfie. Ora, forse voi non lo sapete, ma secondo alcuni voi in quel momento non esistete: siete solo uno schermo delle voglie maschili, uno stereo-tipo, un ologramma proiettato dall’immaginario patriarcale (per non dir di peggio con termini che qui non uso perché non voglio attirare motori di ricerca).
Questo è quanto emerge dalle discussioni di questi giorni sulle fotografie di Letizia Battaglia. La storia è nota: la fotografa, contattata insieme ad altri 19 professionisti da un marchio di automobili di lusso per una campagna da ambientare nelle regioni d’Italia, ha scelto di svolgere l’assignment imponendo il tema che è sempre stato filo conduttore nel suo lavoro: bambine e ragazze. Anche quando scattava foto di cronaca nerissima ha sempre avuto un occhio speciale per le bambine, e questo filo conduttore era già evidenziato nel saggio-intervista di Giovanna Calvenzi del 2010 per Bruno Mondadori, e ritorna in quello appena pubblicato con Sabrina Pisu da Einaudi “Mi prendo il mondo ovunque sia”. Da quando Battaglia ha chiuso con la cronaca, bambine e ragazze sono rimaste protagoniste assolute delle sue fotografie, come testimoni di bellezza, futuro e rigenerazione.
Coerentemente, Letizia Battaglia non ha studiato una strategia pubblicitaria, ma ha imposto la sua visione: ha inserito le auto sullo sfondo nel contesto di Palermo, gialle e fuori luogo come animali esotici, e ha fotografato prima di tutto le “sue” ragazze. Eppure in parecchi/e non le hanno viste: le hanno scambiate per altro. Per accessori equivoci, per simboli ambigui, titillanti.
Scambiare fischi per fiaschi, si dice.
Al posto delle bambine e ragazze, dei loro sguardi, volti e abiti realistici, hanno visto le migliaia di immagini artefatte e ammiccanti con cui pubblicità e televisione ci hanno bombardati in questo ultimo mezzo secolo, a quanto pare riuscendo ad avvelenarci il cervello.
Chi non è stato così miope da attribuire a Letizia Battaglia un’intenzione sessista si è indignato perché “lei doveva aspettarselo” che, dato il contesto, dato lo strapotere dello stereotipo Donne & motori, le sue immagini sarebbero state fraintese e lette attraverso quello (in proposito, vedi le immagini sopra e cerca le somiglianze: non ci sono). Siccome in pubblicità le ragazze vengono usate e abusate lei avrebbe dovuto rinunciare a mostrarle. Il Contesto certo agisce nella lettura di un’immagine: ma è solo uno dei tanti fattori attivi. Se ne siamo schiavi chiediamoci perché e soprattutto: ci sta bene così?
Letizia Battaglia, che non ha abbassato la fotocamera neanche di fronte a ai calci dei capomafia, avrebbe dovuto abdicare davanti al potere dello Stereotipo. Lei, donna, avrebbe dovuto rinunciare a fotografare altre donne, perché lo Stereotipo Cattivo ne avrebbe fatto un sol boccone. E invece sempre più persone le stanno dando ragione e stanno dalla sua parte nella feroce polemica e nei fatti che sono seguiti.
Ho sentito donne dire “poveretta, l’età fa brutti scherzi” (a proposito di stereotipi sessisti). I contestatori più educati hanno detto che “dovrebbe riconoscere lo sbaglio”.
Peccato per loro che non c’è stato nessuno sbaglio. Letizia Battaglia ha fatto quello che voleva fare: ha messo al centro, e nel centro di Palermo nello specifico, bambine e ragazzine di oggi. Vedendole e mostrandole per quello che sono. Ragazze, non ologrammi del desiderio altrui.
Una delle fotografie dalla pagina FB di Letizia Battaglia
Ho aperto questo blog, dieci anni fa, all’apice di un fenomeno di censura visiva: nei media mainstream la donna era diventata un’unica immagine seriale, astratta, idealizzata secondo un prototipo commerciale immutabile.
Qui dentro ne abbiamo parlato, con confronti tra parole e immagini, e ho incontrato su questa strada altri che reagivano a quella anomalìa con l’affermazione di una visione diversa, data da uno sguardo libero da briglie e paraocchi. Rivolto ad una donna o ad altro, cambia poco: il punto resta che è uno sguardo soggetto solo a se stesso, e non a convenzioni.
Da queste premesse iniziava il percorso che ha portato me a partecipare alla prima edizione del Laboratorio fotografico Isozero di Efrem Raimondi, e un mio lavoro a far parte del libro che ne raccoglie i risultati: Fotografia a due tempi – Isozero Lab, curato dallo stesso Efrem Raimondi e edito da SilvanaEditoriale. Dove le mie, di fotografie, hanno per soggetto una donna non idealizzata, una persona con una sua storia – una storia che mi colpisce e voglio raccontare; tutte parlano comunque di vite e di vita, umana o anche no, e spesso guardano dove altri distolgono lo sguardo, o vedono quello che non si vede – o che non vuol farsi vedere.
28 sguardi, 28 lavori – per ognuno 4 pagine di intro e fotografie:
Romina Zago – Identità
Nicola Petrara – Performance
Angelo Lucini – Sparring Partner
Mariangela Loffredo – Traccia di apertura
Laura Albano – La forza del futuro
Lorena Ravelli – E io sospesa
Nicole Marnati – Un ring contro un tir
Simone Luchetti – Addosso
Gabriella Sartori – Ballando con me stessa
Donata Magnini – Quarti
Carla Mondino – Unknown bodies, human landscapes
Alda Gazzoni – All ears
Tiziana Nanni – Conta fino a dieci
Elisa Biagi – Rifugio
Lubomira Bajcarova – Chi siete?
Mauro Bastelli – Dove mi trovo?
Andrea Moretti – Marina
Maurizio Callegarin -. Negazione
Giovanni Cecchinato – SS51 Immagini da una desistenza
Adolfo Massazza – Fratelli
Iara Di Stefano – Io non sono qui
Luca Tabarrini – Staring at the sea
Alessandro Inches – Ikim
Luisa Raimondi – Sale d’attesa
Nicola Tito – Mina
Paolo Nava – Teresa
Sophie-Anne Herin – E poi sono tornata a casa
Esther Amrein – Martino
Il libro oggi 25 luglio 2020 viene presentato per la prima volta all’Oxygen Lifestyle Hotel di Rimini, e, volendo, è acquistabile qui
Padre vecchio e malato padre forte e onnipotente padre assente padre ritrovato padre spaventoso. Questi sono i padri di Lydia Goldblatt, Aneta Bartos, Diana Markosian, Amanda Tetrault. Consigliato caldamente vedere le serie intere al rispettivo link.
“I explore the cyclical scope of existence that sees nature’s fingers unpick our fragile yet insistent efforts to build, construct and create.
These images are from a series about my parents, focussing on my elderly father’s mortality, and stemming from a desire to address the inevitable changes wrought by his approaching death.
I am witnessing human fragility, the physical and psychological boundaries of a human essence. I am interested in the indefinable thresholds that mark out our individual existence, and in the subtle process of erasure that returns us to the state from which we emerge.
In making work about a personal experience of mortality, I am exploring the cyclical scope of existence that sees nature’s fingers unpick our fragile yet insistent efforts to build, construct and create.”
“Visiting him and being in his presence takes me back to my youth, to what felt like an endless stretch of days in a worry-free world anchored by my powerful and loving father. I reflect on how his commitment to education, fitness, organic food and simplicity of basic living has kept him so young and full of vitality. These images represent phantoms of the past, but are living and captured in the present. My father is steadfast and consistent, the embodiment of stability and strength.” (il resto dell’intervista su Huffington Post)
Dear Phil, Philop, Flip Flop, Daddy, I started taking photographs of you, and me with you, around eight years ago. I was 19 and had come back from a summer working in Maine. You probably don’t remember this, but that fall you were really ill. Crazier than I had seen you in years. You were drinking hard, smelling, wearing underwear on your head and spewing all kinds of nonsense. You didn’t believe you were ill, you weren’t taking your medication and there were very few lucid days.
Taking photographs of us was, and continued to be, the only way for me to stay sane or meet you at all when you were sick and drunk.
…..This is for you and me and for every mother, father, daughter, son, brother, sister, husband, wife that has ever had to live with or alongside mental illness.
Anch’io non ho radici che leghino la mia vita – alla terra – anch’io cresco dal fondo di un lago- colmo di pianto.”
Ninfee, Antonia Pozzi (1933)
Nel film “Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino dedicato alla figura di Antonia Pozzi c’è una scena in cui la protagonista, nuda sul letto, contorce in spasmi di inquietudine un corpo di spirituale magrezza – evidente parafrasi iconica dei versi di Canto della mia nudità:
Guardami: sono nuda. Dall’inquieto languore della mia capigliatura alla tensione snella del mio piede, io sono tutta una magrezza acerba inguainata in un color avorio. Guarda: pallida è la carne mia. Si direbbe che il sangue non vi scorra. Rosso non ne traspare. Solo un languido palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto
(…)
Queste fotografie di Donata Magnini, viste a Pistoia alla mostra finale del Corso di linguaggio visivo dell’Associazione Fragment, sembrano fare un discorso simile, già dal titolo – “Nude fragilità”.
La tensione che attraversa il corpo della modella, le lenzuola rosso cupo teatro d’inquietudine, la maschera nera di capelli che soffoca il volto. La pelle nuda sollevata dai marosi delle ossa, attraversata da spuma d’onda bianca: tutto è metafora di tempesta, di una condizione di apnea emozionale.
Ma guardare le onde dal bagnasciuga non è la stessa cosa che vedere il medesimo movimento in mare aperto su una nave. Se il moto ondoso è agitato, lo sguardo di Donata è fermo: è lo sguardo di chi, arrivato sulla riva, si volta indietro verso il pericolo scampato. E riflette sulla messa a nudo di un Io che deve perdersi, salvificamente, per ritrovare il punto di partenza.
“Un senso di indulgenza diffusa, allegra come un volo, la faceva, nel sonno, sorridere. Nel sonno il sorriso è quasi difficile come il pianto e bisogna liberarsene. “Ma io dipingo” scopre Artemisia, risvegliandosi: ed è salvata.”
Anna Banti, Artemisia
There is a panther stalks me down (…) Advancing always at my back (…) I hurl my heart to halt his pace, To quench his thirst I squander blood; He eats, and still his need seeks food, Compels a total sacrifice.
Sylvia Plath, Pursuit
“Pursuit” (Inseguimento) è una delle poesie più famose di Sylvia Plath. La voce narrante fugge da una pantera, incarnazione delle forze del desiderio scatenate dall’appena conosciuto Ted Hughes, ma anche del fuoco inestinguibile che la minacciava da dentro. Sylvia lancia alla fiera il suo cuore per rallentarne il passo, il suo sangue per placarne la sete: la pantera divora tutto ma la sua fame non si estingue, quello che chiede è un sacrificio totale.
Immergersi nelle fotografie di Ilaria Faccievoca quel sentimento di fuga primordiale per la vita, fuga da un animale feroce che la sua storia personale induce ad identificare con il Dolore. La cognizione precoce di un dolore causato da un retinoblastoma, un tumore alla retina scoperto all’età di due anni, che le ha causato la perdita di un occhio. Ma Ilaria è sopravvissuta, e non solo: ha scelto di lottare, per mezzo dell’Arte, per e con altre persone colpite dallo stesso male.
Il Dolore, protagonista dell’introduzione al suo Diario di viaggio (l’inizio si può leggere sul suo sito) è motore e al tempo stesso nutrimento della sua Arte. Dolore e Arte: bocca da sfamare, nutrimento, crogiolo di trasformazione in un continuum reversibile di ruoli legati a doppio filo, così come per Ilaria sono la Vita e la Morte: “è come se io avessi fatto mia l’idea dell’indissolubile coerenza paradossale del binomio della vita, e della morte: una attinge dall’altra, sempre.”
La materia di questa trasformazione è fatta di corpo-membra-epidermide-tessuti; gesto e luce ne sono gli agenti. Si stenta a credere ad Ilaria Facci quando dice di non sapere molto della luce: certo molto sa di Storia dell’Arte. La luce delle sue fotografie è la luce fosca della pittura del Seicento, che insieme ai gialli, ai blu, ai rossi dei tessuti cangianti non può non evocare un’altra sublimazione di violenza subìta: quella di Artemisia Gentileschi.
Ilaria come Artemisia reagisce all’offesa, da preda braccata si fa dominatrice; l’Arte è la sua arma di riscatto, e anche la sponda salvifica; sorgente acquamarina di rinascita come nella sua più recente serie “Lazarus”.
Con quello che lei stessa definisce il suo Cieco Vedere, Ilaria ci mostra la strada.
In un’intervista dal sito Visura Magazine Carucci rivela che la sua fotografia documenta la vicinanza con i suoi familiari, ma al tempo stesso risponde ad un bisogno di indipendenza, di stabilire un confine, di mettere una certa distanza tra loro e se stessa. Una sorta di “connessione distaccata”, si potrebbe forse tradurre – che mi pare esattamente la qualità delle sue fotografie.
“My work is a documentation of closeness, as well as a need to establish a boundary, a certain distance between them and myself, in a detached and related way.”
A Laura Barton (The Guardian) Carucci spiega che non c’è grande differenza tra fotografie posate o no: è piuttosto una differenza di onestà. Barton conviene che il lavoro di Carucci è caratterizzato da una inflessibile onestà, che sembra manifestarsi soprattutto nella predilezione per fotografare i suoi soggetti svestiti. Predilezione che non è sempre frutto di una scelta deliberata quanto una conseguenza di uno stile di vita che a lei era sempre parso “normale”, fino a che non si è confrontata con le reazioni della gente. Non aveva affatto l’intenzione di provocare, ma si è resa conto che certe sue foto ammiccavano a certi tabù e a certe tensioni inespresse, e neanche pensabili: ma forse, viene da dire guardando le foto, fotografabili.
“I guess it’s a combination of the way I was at home – the way my mom or dad would walk around in their underwear, or after their bath naked. It’s not like we’re living our lives naked, it’s just before the shower, where I can walk into the bathroom in my underwear and ask my father something. It’s so, so normal and I thought that most families are like that. I realised only after I took those images how unusual it is, because of how shocked people were by my photographs. I realise that some of my pictures were more provocative – like me and my father naked. Even for us, that was a bit weird. But images of me and my mum naked? I’m like, ‘What’s the big deal? You’ve never seen your mum naked?’ And many people said no. I was really surprised.”
Tempo fa qui sul blog ho dato spazio ad una serie di foto in cui diverse fotografe ritraevano la propria madre. Oggi inizia una serie in cui diverse fotografe (alcune presenti anche nella prima serie) ritraggono il padre.
La prima è Annie Leibovitz, con tre foto da “A Photographer’s Life, 1990-2005”, libro composto da foto di personaggi famosi alternate ad un diario intimo e a tratti molto cupo. Il padre, al contrario della madre, compare sempre insieme agli altri membri della famiglia, fino alla foto sul letto di morte – quasi che la morte, potente catalizzatore, abbia portato alla coscienza il rapporto a due.
Annie Leibovitz, My brother Philip and my father, 1988
Annie Leibovitz, My parents with their Grandson Ross, 1992
Quando ho letto in rete dell’uscita di “Girl on Girl – Art and Photography in the Age of the Female Gaze” di Charlotte Jansen, ad aprile scorso, ho storto il naso. Come già detto in qualche post precedente sembra che alcune fotografe siano perse in un labirinto di specchi, e non vedano altro che donne, spesso proiezioni di se stesse.
Poi però quando ho visto il libro in una vetrina della mia città non ho resistito e l’ho comprato, per curiosità e per parlarne in questo blog. Le fotografe scelte dall’autrice sono ben 40: sfogliare velocemente il libro è il modo migliore per non capire nulla. Merita prendersi del tempo e approfondire le 40 girls per conto proprio. Si scoprono così cose molto interessanti: ad esempio che qualcuna di loro fotografa anche uomini, e con sguardo molto sessuato – ma evidentemente non sta bene dirlo.
Quiuno sguardo generale sul libro. Le fotografe spaziano dai temi consueti del corpo e dell’identità a terreni meno battuti come il rapporto donna-spazio. Cosa degna di nota: la critica non italiana usa senza remore le espressioni “female gaze” e “male gaze”, cosa che da noi è messa all’indice. Mi è capitato di assistere alla presentazione di una mostra di fotografe donne presentata da una ottima critica con un curriculum che rivelava chiaramente un’attenzione alle tematiche di genere, ma che (per non perdere tempo in polemica con i colleghi uomini presenti?) ha deliberatamente minimizzato questo aspetto. Guadagnandone certo in salute, ma rinunciando forse ad un po’ di contenuti.
Ho scoperto Annalisa Ceolin su Facebook, grazie ad un ritratto che aveva fatto ad un amico. Un ritratto molto contrastato, il volto immerso per buona parte in un’ombra densa che gli somigliava molto.
Quando mi appare una fotografia di Annalisa sulla home si aprono prospettive nuove, varchi di luce e di buio, angoli di strada da cui potrebbe sbucare all’improvviso la scarpa del Terzo Uomo (e il gatto che l’annusa), o uno dei mostri bergmaniani da Ora del lupo.
Poi, seguendo il suo sguardo per quelle strade, si scoprono invece presenze timide, discrete, magari scostanti ma gentili. Si scopre, anche, leggendo i titoli delle serie, di trovarsi in una terra di mezzo tra cinema e letteratura.
Il nero non è forse così buio come lo si dipinge, e anche l’inferno può attendere.